Una cosa va detta subito: The Wrestler non è un capolavoro. I premi che ha vinto sono meritati (ed è grave che non abbia preso nemmeno un Oscar), ma non tanto per le sue qualità cinematografiche, quanto per quelle umane, che ne fanno addirittura un film necessario.
Un film necessario perché finalmente rende giustizia ad una dimensione del wrestling che a molti sfugge, in quanto ne sanno o ne possono cogliere solo gli aspetti più appariscenti, nel bene e nel male. La stragrande maggioranza delle persone, e statisticamente quindi anche degli spettatori del film, conoscono solo la superficie del wrestling, quelle due dimensioni su cui sono ritagliati i personaggi, in ed extra ring, dai bookers e dai giornalisti. The Wrestler finalmente restituisce a queste persone una terza dimensione, la profondità esistenziale che, per un mirabile ossimoro, è perfettamente rappresentata dal viso inespressivo - perché sfigurato da bisturi e pugni - di Mickey Rourke. Una profondità esistenziale che è fatta di relazioni, fallimenti e rinascite, fiducia e disperazione.
Il wrestling è uno show per definizione poco filmabile, in quanto esso stesso una rappresentazione, ragion per cui è sempre mancata una bella storia di wrestling, al cinema. Ad Aronofsky è riuscita l'impresa, anche grazie ad un terzo livello metateatrale, in cui Mickey Rourke non ha recitato, ma ha messo in scena sé stesso, rinato per la seconda volta dopo essersi due volte autodistrutto, su altrettanti, diversi palcoscenici. La parabola umana di Rourke è la stessa di Randy "The Ram" Robinson, che è rappresentazione di tante storie di veri wrestler, che per vivere interpretano personaggi diversi. E quindi, la sensazione di caduta della quarta parete è palpabile, allorché vediamo dei wrestler che si accordano per l'andamento degli incontri (il collo lo fate voi? Noi facciamo la gamba, allora), lottatori truci ed estremi che nel backstage sono impacciati e deferenti, la preoccupazione e gli incoraggiamenti sussurrati durante il combattimento (basta Ram, schienami, chiudiamola!). E' questo, forse, che ha dato più fastidio a chi oggi regge il business, più ancora dei riferimenti a droghe e steroidi. Perché chi gestisce il business non è molto diverso da un pappone, che sfrutta e spreme i corpi del suo roster finché non può far altro che liberarsene. E mantenere l'illusione che sia tutto vero (kayfabe, si chiamava) aiuta a rimuovere questa realtà imbarazzante.
Non è un caso che la vicenda di Ram sia simmetrica rispetto a quella di Cassidy (e Marisa Tomei i suoi anni se li porta decisamente bene!): dopotutto fanno lo stesso mestiere, costruito sulla finzione e sul mercimonio. La redenzione di Ram passa per il confronto e lo sfiorarsi con questa donna, che è madre prima di tutto - lo dice lei - e che lo richiama alle sue responsabilità di padre e di uomo. Non sembri blasfema, a proposito di redenzione, la citazione della Passione di Cristo, letta in chiave showbiz, ad opera proprio di Cassidy: è subito dopo, con il terribile incontro con Necrobutcher su di un ring CZW, che comincia il calvario di Ram, un calvario fatto di tante stazioni di sofferenza, con cadute e riprese, fino alla possibile, incredibile resurrezione, del rematch con The Ayatollah. Non sappiamo come vada a finire: l'ultimo ram jam, e poi le note della struggente canzone del Boss, sono un salto nel buio. Ma è un buio fatto di speranza.
1 commento:
Ho sentito parlare molto bene di questo film e spero di riuscire a vederlo
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