Il ritorno di fiamma della passione per il wrestling in Italia, con il fiorire di eventi e di sigle nuove, coincide con (o forse è favorito da) una crescente disponibilità di film e serie tv sulla disciplina, ulteriormente propiziata dalle piattaforme di streaming, che erano di là da venire solo 15 anni fa - epoca del mio ultimo intervento su questo blog... che sto utilizzando all'insaputa di chi lo aveva fondato e amministrato! Tutta questa sovrabbondanza rischia di 'lasciare indietro' prodotti che pure si erano attesi per molto tempo, ma che non si ha il tempo (o la disposizione d'animo) per guardare e analizzare.
Questo è il caso, almeno per me, di The Iron Claw, uscito ormai - almeno negli USA - quasi un anno fa, che sono riuscito a guardare solo nei giorni scorsi. Lo attendevo da tempo, un po' perché fin dagli anni 80 ho seguito le vicende dei Von Erich e la loro storia mi ha sempre affascinato e terrorizzato, ma anche perché - in quanto padre di vari figli - la figura di Fritz mi interroga e mi provoca.
Perché è vero che la vicenda narrata dal film è centrata su Kevin, ma la Iron Claw che gli dà il titolo non è solo la mossa caratteristica di famiglia, ma è soprattutto quella in cui il patriarca dei Von Erich ha stretto tutta la sua progenie. Il film è una storia di padri, e siccome all the best cowboys have daddy issues, il pianto finale di Kevin abbracciato ai figli è liberatorio anche dalla morsa che il padre ha esercitato sulla sua vita e su quella dei fratelli. Accecato da un'ambizione - che se fossimo in una tragedia classica chiameremmo hybris - e da un desiderio di rivalsa che superano ogni limite, Fritz Von Erich dispone a piacimento della vita e delle capacità dei suoi figli, senza contraddittorio, senza discussioni, senza appello. Questo accecamento è speculare a ciò che gli accade lungo gli anni, perdendo uno alla volta cinque dei sei figli (addirittura uno di loro non viene raccontato, nel film, tanto è fuori misura quello che accade: Chris viene solo ricordato nei titoli di coda).
In quasi tutte le lingue del mondo non esiste una parola che rappresenti l'inverso di orfano, tale è l'innaturalità del sopravvivere ai propri figli: in latino troviamo però qualche volta orbatus, per riferirsi alla perdita di uno o più figli. Essere orbato significa perdere la luce dei propri occhi, ed è forse questo il contrappasso (destino? sfortuna? maledizione?) per l'accecamento di Fritz Von Erich di cui dicevamo. Quella di essere orbato è la paura che tutti i genitori del mondo condividono, è la tragedia più irrimediabile che possa capitare: i pochi romanzi senza lieto fine - o comunque senza un barlume finale di speranza - del più grande autore americano vivente, Stephen King, hanno a che fare con la perdita di un figlio (Pet Sematary su tutti).
Oltre a rappresentare questo terrore, la storia dei Von Erich mi interroga come padre perché descrive i rischi di invadenza (se non di condizionamento o di soffocamento) per la vita dei propri figli che comporta una passione, un'ambizione, anche solo un'aspirazione molto forte. Quanto è d'acciaio la morsa che sto esercitando sulle scelte di vita dei miei figli? Non bisogna essere nel Texas degli anni 70-80 per determinare (con la forza e l'inflessibilità, oppure con la disponibilità solo apparente che genera sensi di colpa) svolte esistenziali in chi ti ha come punto di riferimento.
La storia dei Von Erich è una tragedia, non classica nel senso greco-romano, ma classicamente americana. Si tratta di un grande romanzo familiare, con padri padroni, sfide all'ultimo sangue e lotta per l'affermazione sugli altri, per la conquista di un primato su altri territori. Il film è sostanzialmente riuscito: in chi non conosce bene la storia originale non stonano le licenze cronologiche, e anzi l'ambiente del backstage è reso piuttosto bene, le scene di lotta sul ring sono ben coreografate e credibili. Una certa sensazione di cringe emerge soprattutto a sapere che la narrazione è basata su persone vere, alcune delle quali viventi, tanto che forse al film preferisco una serie come Heels che traspone storie familiari di wrestling in una vicenda di immaginazione. La scena pre-finale con il ricongiungimento nell'afterlife dei fratelli defunti è certo strappalacrime, ma efficace nell'introdurre quel barlume di speranza che poi - nel vero finale - si materializza nel parco della casa di Kevin. Perché anche in questo, come in tanti romanzi americani, lo sguardo si alza dal buio delle miserie umane e della sconfitta, verso un futuro più radioso.
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