Arrivo buon ultimo a scrivere qualcosa su Mr. McMahon,
la docu-serie Netflix sul patron della WWE, costretto dai recenti scandali a
lasciare il timone di quella che è la più grande compagnia di wrestling al mondo.
Scandali che – pur avendo avuto dei prodromi negli anni e decenni passati – si sono
manifestati solo di recente, quando la serie era già in rampa di lancio, e che quindi
non hanno potuto essere affrontati nella loro piuttosto significativa rilevanza
sulla vita del personaggio.
Si tratta quindi di una serie che – pur non essendo
apologetica o troppo compiacente – non affonda i colpi quanto potrebbe, e
difficilmente potrebbe essere altrimenti, visto il coinvolgimento diretto di
McMahon e famiglia nella produzione.
Fin dal trailer, tutti i sei episodi sono giocati sul dualismo
tra persona e personaggio: quanto di Vince McMahon jr c’è in Mr. McMahon e
viceversa? Ovviamente la serie non dà una risposta univoca, perché è nella
natura dello spettacolo che Vince e famiglia portano avanti da settant’anni (se
teniamo conto di quanto fatto dal padre, Vince sr) mantenere l’illusione che
quanto accade sul ring sia vero, instillando nel pubblico curiosità, dubbio,
sorpresa, stupore – tutte emozioni e sentimenti che fondano la passione per il
wrestling.
La terza puntata, Screwjob, è forse la più interessante
in questo senso, perché – ‘incorniciata’ tra i due più famosi screwjob di
Vince, quello ai danni di Wendi Richter nel 1985 e quello ai danni di Bret Hart
nel 1997 – mette a tema quella che è la chiave del successo del wrestling
presso il pubblico: la kayfabe.
Termine non a caso di origine circense, kayfabe è il
mantenere viva l’illusione che quanto succede dentro e attorno al ring sia
reale, non predeterminato, non coreografato, non sceneggiato. È un concetto che
– prima dell’ascesa dell’allora WWF a fenomeno globale – non veniva messo in
discussione in alcun modo dagli addetti ai lavori, tanto che buoni e cattivi (face
e heel) dovevano mantenere i propri ruoli (e corrispondenti rivalità)
anche al di fuori dei palazzetti. È un sinonimo della sospensione dell’incredulità
richiesta per apprezzare uno spettacolo che ha contenuto atletico, ma che è sceneggiato
quanto un prodotto televisivo seriale. Io stesso, quando scrissi per la prima
volta di wrestling su una rivista di sport da combattimento, nel 1988, rimasi
nella kayfabe (era la politica editoriale di allora, come lo è tutt’ora in
molte testate cartacee, Pro Wrestling Illustrated in testa), trattando
federazioni e atleti alla stregua di fenomeni legittimamente sportivi.
Ormai, soprattutto con l’avvento del web e della
disponibilità in tempo reale di informazioni su tutto e tutti, non c’è più
nessuno che possa essere considerato veramente mark, come venivano
chiamate le vittime di imbrogli e fregature da sagra di paese (perché marchiati
con un segno di gesso dai complici di imbonitori e truffaldini), nessuno abbocca
alla kayfabe. L’approccio che va per la maggiore è oggi quello smart,
che anzi è più interessato alle politiche del backstage e alle situazioni in
cui la kayfabe si rompe (le uscite dal personaggio, come l’incidente della Kliq
al MSG, o gli screwjob, per l’appunto), quasi disilluso rispetto all’incanto
che le storie raccontate propongono.
C’è però una modalità di fruizione del wrestling che salva
il piacere derivante dal seguire lo spettacolo, ma che non rinuncia alla
consapevolezza che è tutto – ancora – kayfabe. È l’approccio smark, che
consiste in una credulità distaccata, consapevole eppure aperta alla
sorpresa. Per dirla con Mariano Tomatis, wonder injector, a proposito
dei maghi e degli illusionisti:
Each artist can actively adopt an emancipatory
attitude towards her audience, refusing the dicotomy and aiming at a “Smark”
reaction. Shaping in the audience the sophisticated skill of “detached
credulity” is the most ambitious challenge for a modern magician.
[Ogni artista può attivamente adottare un atteggiamento emancipatorio nei confronti del proprio pubblico, rifiutando la dicotomia (mark/smart, NdF) e puntando a una reazione "Smark". Plasmare nel pubblico la sofisticata abilità della "credulità distaccata" è la sfida più ambiziosa per un mago moderno]
Quindi anche il wrestling può essere operatore di reincanto?
È quello che io credo sia il valore più alto che ha questa forma d’arte
circense – o meglio, quello che le è rimasto rispetto alle altre forme di intrattenimento.
Se c’è ancora qualcosa che ci sorprende, che ci fa emozionare, che ci lascia il
dubbio sull’esistenza e la natura del trucco, non tutto è perduto.
E quindi ben venga anche il dubbio su Mr. McMahon: dove
finisce l’individuo e dove comincia la maschera? Ma vogliamo davvero saperlo?
Non è forse grandioso che nel 2024 il dubbio ci sia ancora? Non è forse questo
il suo vero gioco di prestigio?
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